Radicale, non liberale


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Occupazione delle banche, vergogna di volare, zero sprechi, anticapitalismo – le idee di protezione del clima sono numerose. «La cosa principale è fare qualcosa per il clima.» Tutt’altro! Il seguente articolo spiegherà perché gli approcci liberali sono sempre sbagliati e perché il principio del consenso rende impossibili misure di protezione del clima radicali e quindi sostenibili.

Nello scorso anno il movimento Sciopero per il clima ha decisamente dominato il dibattito pubblico.  L’immensa risposta positiva dell’opinione pubblicasi è vista soprattutto durante la manifestazione nazionale del 28 settembre 2019, durante la quale 100’000 persone hanno rivendicato una politica climatica giusta e progressista. Il nostro movimento è stato inoltre determinante per la svolta verde durante le elezioni federali del 20 ottobre 2019.

Ad approfittare dell’onda verde è stato anche il Partito Verde Liberale, che ha più che raddoppiato i suoi seggi nel Consiglio nazionale, passando dai sette ai sedici seggi. Quei partiti che ornano il loro nome con l’aggettivo “verde” si sono potenziati massicciamente. Anche le aspettative dell’opinione pubblica nei confronti della neocostituita Assemblea federale erano quindi elevate: ora si dovrebbero finalmente adottare misure efficaci di protezione del clima.

Tuttavia i Verdi Liberali hanno dimostrato ripetutamente e chiaramente la propria posizione. A novembre nel canton Zurigo, al secondo turno delle elezioni per il consiglio nazionale c’era la scelta tra la candidata verde Marionna Schlatter e il liberale Ruedi Noser. A dicembre si ripropose una situazione simile all’elezione dei consiglieri e delle consigliere federali, quando la candidata verde Regula Rytz è stata proposta al posto di Ignazio Cassis del PLR, in risposta al cambiamento degli equilibri di potere in Parlamento. In entrambi i casi il Partito verde liberale ha deciso di non raccomandare candidate verdi, e in seguito eletto con una grande maggioranza i candidati PLR, mostrando così il vero volto del partito: il profitto sta in primo piano, nessuna traccia di verde, tranne magari sui manifesti elettorali.

Anche nella gestione politica quotidiana il Partito verde liberale si contraddice regolarmente dal punto di vista ecologico. Nella sessione invernale del 2019 la maggioranza del partito ha votato a favore del finanziamento da 6 miliardi di franchi per nuovi aerei da combattimento. Due membri del partito avevano persino dichiarato nella loro promessa elettorale di essere contrari alla spesa, infine hanno però votato a favore del finanziamento. Già solo l’enorme impatto ambientale della produzione e dell’utilizzo di aerei da combattimento avrebbe dovuto causare scalpore negli elettori che avevano riposto fiducia nel “verde” dei Verdi Liberali. Non di minore importanza sono però le implicazioni militari che accompagnano l’acquisto di nuovi aerei da combattimento. È probabile che la crisi climatica, che va di pari passo con la crescente scarsità di risorse, porterà ad un aumento sia dei conflitti regionali sia di quelli internazionali. E in questo intreccio tra protezione del clima e politica di sicurezza, il PVL si affida a spese completamente stravaganti per i jet da combattimento di lusso invece che a investimenti per combattere la crisi climatica. Infatti, se i problemi ecologici e sociali non vengono considerati insieme e il principio „chi inquina paga“ della crisi climatica si applica ai privati, ma non ai governi, alle banche e alle grandi imprese, la protezione del clima è molto semplice – e molto efficace in termini di costi.

Il paradosso verde liberale

L’unione ideologica di interessi ecologici ed economici alla PVL è perversa, in quanto ancora oggi si possono ottenere profitti massicci con attività dannose per il clima. Gli istituti finanziari svizzeri avrebbero già smesso molto tempo fa ad investire in sporchi affari petroliferi se ciò non fosse economicamente redditizio. In un sistema economico capitalista che sottopone ogni centimetro quadrato del nostro pianeta a una valorizzazione economica, che alla fine trasforma le persone in merce e che considera la politica climatica come un mercato di vendita redditizio per i certificati di emissione, nessuna misura di protezione del clima può contrastare in modo sostenibile le problematiche ecologiche e sociali prevalenti.

Questo punto è stato oggetto di un intenso dibattito per mesi. Il capitalismo verde davvero non è possibile? Davvero non possiamo continuare ad aumentare la nostra prosperità mentre „facciamo qualcosa per l’ambiente“? A queste domande si deve rispondere con un „no“ forte e chiaro, almeno da quando il PVL si è rafforzato. Il partito che ha assunto la causa di questa unione di interessi ecologici ed economici non può fare a meno di dare ripetutamente priorità agli sforzi finanziari, altrimenti l’economia ne uscirà danneggiata. Dopo tutto, il blocco nominale dei Verdi Liberali nel Consiglio degli Stati di Zurigo e le elezioni del Consiglio federale sono prova sufficiente che le misure di protezione del clima semplicemente non sono possibili in una logica di profitto capitalistica. A causa delle sue intrinseche contraddizioni, nei prossimi quattro anni il PVL non otterrà nulla che si avvicini nemmeno lontanamente a una politica climatica sostenibile. O si è liberali o si è verdi.

Ma cosa ha a che fare tutto ciò con il nostro movimento? Dopo tutto, c’è un ampio consenso all’interno dello Sciopero per il clima sul fatto che la politica istituzionale non ci sta fornendo alcune soluzioni alla crisi climatica. Alcuni potrebbero obiettare, che il calcolo politico del PVL ci può lasciareindifferenti. In realtà però ci colpisce molto più di quanto possa sembrare a prima vista. La questione se la protezione del clima possa essere raggiunta in modo sostenibile anche con soluzioni liberali ha occupato il nostro movimento fin dal primo giorno.

Proposte di soluzioni liberali non possono far parte del nostro movimento. La convinzione che misure del libero mercato siano sufficienti per superare la crisi climatica promuove la struttura che ha causato questa crisi in primo luogo. Le aziende „sostenibili“ e „sociali“ soddisfano un nuovo bisogno del mercato di prodotti e servizi a risparmio di risorse, mentre i consumatori e le consumatrici sensibili e critici sono intorpiditi da una coscienza pulita. Tuttavia, questo significa che non stiamo uscendo dalle strutture a scopo di lucro, ma che siamo ancora bloccati in esse. Le soluzioni proposte dai liberali – siano esse etichettate come “sostenibili” o meno – non devono avere un posto nel nostro movimento, poiché la creazione di nuovi mercati come presunta soluzione alla crisi climatica nega il fatto che i processi di negoziazione politica siano necessari per porre rimedio ai problemi attuali.

Il principio del consenso mette in pericolo il nostro obiettivo

L’influenza del pensiero liberale indebolisce quindi Sciopero per il clima come movimento politico, se le strutture interne del movimento lo permettono. Nel nostro caso, il prerequisito perché ciò accada è dato dal principio del consenso come metodo decisionale: con il principio del consenso, il nostro movimento funziona in modo tale che anche le minoranze più piccole possono bloccare le decisioni. E poiché ci sono ancora tendenze liberali all’interno di Sciopero per il clima, le misure di protezione del clima progressiste e sociali e quindi sostenibili sono, allo stato attuale delle cose, gravemente minacciate o addirittura rese impossibili.

Il principio del consenso si basa sul principio del minimo comune denominatore. Che il cambiamento climatico esista è naturalmente indiscusso nel nostro movimento. Così come la sua causa antropogenica. E anche che è soprattutto il Nord del mondo responsabile della crisi climatica. Ma da qui in poi diventa più difficile e non tutti sono più d’accordo. In che misura le disuguaglianze sociali hanno un ruolo nella crisi climatica? La questione ecologica è anche una questione sociale? Dove tracciamo i confini del sistema per il principio „chi inquina paga“? Quali sinergie e quali forme di azione utilizziamo per la nostra protesta politica? E da dove cominciamo esattamente se vogliamo combattere la crisi climatica?

È quindi in corso una polemica su questi temi all’interno del nostro movimento. L’inevitabile conseguenza di ciò, in base al principio del consenso, è che possiamo concordare approcci alle soluzioni solo nelle questioni fondamentali – il minimo comune denominatore. Tuttavia, queste questioni possono essere tradizionalmente risolte anche da una visione del mondo liberale. Misure più radicali – e quindi misure che affrontano il problema alla radice – non hanno posto in questo sistema decisionale, in quanto non riescono a trovare un consenso a causa delle minoranze liberali. Per questo motivo, ad esempio, ancora oggi non è possibile che Sciopero per il clima dimostri ufficialmente la sua solidarietà con lo Sciopero delle donne*. Il motivo per cui questo risulta assolutamente necessario è stato mostrato nell’ultimo numero (02/2019), nell’articolo «Die Klimastreikbewegung kann nicht nur alleine kämpfen». Ma la connessione di queste due lotte richiede la consapevolezza che la questione ecologica è anche una questione sociale. Poiché questo porterebbe a mettere in discussione il nostro sistema economico capitalista, la minoranza liberale all’interno del nostro movimento ha resistito con successo per mesi a questa fusione di lotte.

Il principio del consenso è quindi – contrariamente alla sua iniziale intenzione – del tutto antidemocratico. In linea di principio, l’idea di prevenire strutturalmente la discriminazione contro la minoranza da parte della maggioranza è lodevole. Ma se singole persone nel nostro movimento eterogeneo possono bloccare l’intera operazione, come si possono sviluppare misure progressive di protezione del clima?

Radicalizzazione collettiva

Non c’è quindi bisogno della solita argomentazione secondo cui non importa quale direzione si prenda per proteggere il clima: che sia sociale o no, liberale o no – la cosa principale è che „si sta facendo qualcosa per il clima“. Ma secondo il principio del consenso, questa è una linea di argomentazione fondamentalmente sbagliata e persino pericolosa. Dobbiamo finalmente comprenderci come un vero movimento politico e prendere posizioni chiare. La crisi climatica è un problema per la società nel suo complesso, e quindi la soluzione deve essere pensata anche in termini di società nel suo complesso. Se vogliamo dare un contributo reale ed efficace a questa soluzione, abbiamo bisogno di una strategia chiara, politica e radicale come movimento collettivo – tutti insieme. Pertanto, il primo passo in questo senso deve essere l’abolizione del principio del consenso. Perché fino a quando ci paralizzeremo con il feticcio dell’orizzontalità, che vuole tener conto di tutte le opinioni, senza analizzarle in modo critico, non troveremo una risposta radicale alla crisi climatica.

Rahel G., 26 anni, geografa e attivista di Sciopero per il clima.

I pugni neri di Otpor


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Come può un movimento raggiungere i suoi obbiettivi? Questa domanda rimane senza risposta, ma possiamo ispirarci da movimenti passati analizzando la loro evoluzione e le loro strategie. Prendiamo come esempio il movimento serbo Otpor.

Come può un movimento raggiungere i suoi obbiettivi? Questa domanda rimane senza risposta, ma possiamo ispirarci da movimenti passati analizzando la loro evoluzione e le loro strategie. Prendiamo come esempio il movimento serbo Otpor.

Il movimento Otpor nasce nel 1998. In questa epoca, la Serbia fa parte della Repubblica Federale di Jugoslavia, toccata dalle Guerre di Jugoslavia che iniziarono a causa della dichiarazione d’indipendenza della Croazia e della Slovenia. Il presidente della Serbia, Milosevic, è rapidamente accusato di numerosi fatti : crimini di guerra in Croazia e in Bosnia-Erzegovina, genocidio e corruzzione. In seguito a questi atti, diversi attori e attrici si rendono conto della situazione e della gravità di avere al potere un uomo come lui.

Nel 1998, Mirko Maryanovic, primo ministro serbo, fa passare un testo di legge polemico : “The University Law”, limitando l’autonomia dell’università di Belgrado. In reazione, il movimento popolare Otpor si forma nell’Ottobre 1998. Agli inizi è principalment composto da giovani del partito democratico, di attori ed attrici di alcune ONG attive in Serbia e di studenti e studentesse delle due università pubbliche di Belgrado.

La prima rivendicazione del gruppo è la dimissione del rettore dell’università di Belgrado, accusato di diffondere la politica repressiva del regime. In seguito, la prima azione di Otpor attrae l’attenzione. Quattro studenti attivisti dipingono dei pugni neri ui muri dell’università. In seguito al loro arresto, sono condannati a dieci anni di prigione. Questa sentenza non passa inosservata agli occhi del pubblico, che la considera inappropriata. Dopo la rimozione del rettore, il movimento si diffonde in tutto il paese. Prima vittoria!

Le prime azioni di Otpor sono del tipo contestatore e sono vocate ad attirare l’attenzione. Le/gli attiviste.i escono ad esempio di notte a “decorare” I muri della città di Belgrado di slogan vistosi. In seguito, il loro metodo di azione si affina. Si basa su tre principi : l’unità di azione, basata su un sistema orizzontale, garantisce l’uguaglianza fra le/gli attiviste.i e dà l’immagine di un organismo unito di fronte al presidente serbo ; la diciplina non-violenta dà un un’immagine relativamente poitiva al movimento permettendo di ampliare i campi di reclutamento (élargir les champs de recrutement) dei membri e l’organizzazione degli eventi si fa più facilmente ; una pianificazione anticipata ed efficace è uno dei punti forti del movimento.

La dichiarazione sull’avvenire della Serbia permette in primo luogo di informarsi sui metodi da utilizzare , sui problemi da risolvere e ugli scopi da raggiungere. La coesione fra membri è quindi asicurata e l’identità e gli obbiettivi del movimento – la democratizzazione della Serbia e la caduta del governodi Milosevic – sono chiaramente definiti per tutti.e.

È grazie ai pilastri presentati qui di seguito che le diverse strategie del movimento hanno potuto svilupparsi :

Otpor adotta un approccio offensivo inizioata con azioni simboliche, per catturare lo sguardo della popolazione. Questo approccio offensivo corrisponde all’organizzazione di azioni dirette. Gli/le attivisti.e riescono ad organizzare azioni definendo i vari compitida ditribuire a livello nazionale, istituendo un piano di azione per ampliare lo spettro di chi si oppone al regime (afin d’élargir le spectre des opposant.e.s au régime) e considerando le proposte strategiche da sotegni venendo dall’esterno mantenendo la possibilità di adattare queste tattiche alla loro situazione. Grazie a questo metodo e moltiplicando il numero di azioni concrete a chiare, gli attori e le attrici serbi.e sparpigliati I raggruppano e si coordonano di fronte alla politica di Milosevic. Otpor fa capire alla popolazione che un cambiamenti di potere è inevitabile.

Otpor ha capito che la forza sta nel numero e che la vittoria contro Milosevic è possibile unicamente se i/le suoi.e opponenti rimangono uniti.e. Ecco perchè il movimento vuole inanzitutto collaborare conuna grande diversità di attori ed attrici. Per dipiù, per allargare le proprie file (afin d’élargir ses propres rangs), Otpor organizza campagne di divulgazione, ad esempio quella del 1999 durante la quale sono rappresentati sui poster degli attori serbi famosi con il pugno alzato. La forza stava nel numero.

Otpor ha in particolare approfittato delle elezioni presidenziali del 2000 in Serbia. La strategia dei suoi membri può essere divisa in tre parti. Per prima cosa, sfruttano la decredibilizzazione del governo di Milosevic per mobilizzare la popolazione serba. In seguito, incitano I giovani serbi a votare. Questo riprende la loro visione di forza nell’unità, l’opposizione a Milosevic non può essere divisa. E per finire, Otpor si è assicurato di mettere in evidenza gli errori principali della politica di Milosevic per evitare di riprodurli nelle future campagne elettorali.

Otpor ha anche curato molto la sua immagine. Da un lato il movimento offre un’immagine positiva affinché si amplifichi la recluta di attivisti e si abbia il sostegno della popolazione. Si posiziona come vittima di fronde all’autorità politica. La ridicolizza pure grazie alla disciplina non violenta, come lo disse C. Miller [1] : “in tal modo, quando I bambini erano arrestati in queste piccole città […], la gente sapeva bene che I bambini del vicinato non erano terroristi”. Con questa immagine positiva, Otpor può offrire alla popolazione l’immagine di un movimento fruttuoso. Per dipiù, il movimento organizza una campagna “negativa” nella quale l’humour è utilizzato per ampliare l’assurdità del regime. Ciò permette di rilassare l’atmosfera nel movimento.

Il movimento desidera ugualmente sviluppare un sostegno esterno. Otpor comprende una grande diversità di individui eterocliti ed ha ugualmente ottenuto il sostegno di gruppi ed organizzazioni esterni al movimento. Qui si tratta di sviluppo e di apertura. In effetti, certe vittorie strategiche di Otpor sono state possibili grazie all’aiuto di attori ed attrici esterni.e, ad esempio con l’aiuto finanziario notevole degli Stati Uniti oppure con la sollecitazione di istituzioni di sondaggio così come di agenzie di communicazione nazionali ed occidentali affinché sia perfezionata la loro comunicazione (distribuzioni di volantini, autocollanti).

La strategia di communicazione, fu soprattutto utilizzata durante le elezioni. La prima campagna costituiva nel far capire al resto della popolazione che il cambiamento di governo è inevitabile con delle manifestazioni popolari. Poi, una seconda campagna incitava la gioventù a votare.

Il movimento riuscì a raggiungere I suoi obbiettivi. Milosevic fu rovesciato il 5 ottobre 2000 con il suo regime in seguito alle elezioni presidenziali, e la democratizzazione della Serbia inizia quando è eletto Kostunica, dal partito di Opposizione democratico della Serbia. Ma quali strategie sono più efficaci?

Come prima cosa, il fatto di definire chiaramente gli scopi di Otpor è un elemento importante. Non solo il movimento mostra alla popolazione la sua volontà, ma anche la sua evoluzione el le sue avanzate. Poi, Otpor riesce a condividere nel movimento gli stessi valori per tutte.i : unità, tolleranza e non-violenza. Ciò permette di definire certe regle. Per dipiù, il funzionamento del movimento serbo si basa sulla pianificazione delle azioni e sulla ripartizione dei diversi compiti, e tutte queste azioni hanno uno scopo preciso. Finalmente, il movimento si inserisce nella cultura popolare serba, il che amplifica la sua popolarità.

In seguito alle elezioni nel 2000, le azioni e i membri del movimento diminuiscono. Otpor si da nonostante tutto questo il compito di sorvegliare la politica, e in particolare di impedire ogni tipo di corruzione. Dopo l’annuncio delle elezioni parlamentari del 23 dicembre 2003, Otpor diventa un partito politico il 19 novembre 2003, senza ufficialmente nominare qualcuno alla testa del partito. Ma durante le elezioni, il partito politico non ottiene il minimo necessario del 5% per entrare in parlamento. Nel 2004, Otpor finisce e si fonde totalmente con il Partito Democratico Serbo. Certe.i videro questo come un fallimento del movimento.

Oltre al suo ruolo vitale nella caduta di Milosevic, Otpor è ugualmente diventato un’ispirazione per gli altri movimenti giovani in Europa Orientale. In effetti, i membri di Otpor, formati in resistenza civile, hanno potuto a loro turno formare i membri di vari movimenti nei paesi vicini. Otpor si inserisce anche nell’organizzazione e la pianificazione di certe rivoluzioni della primavera araba, ad esempio venendo in aiuto ai movimenti giovani in Egitto.

Otpor è strategico, efficace, chiaro, aperto, non-violento e unito. La sua traiettoria è globalmente positiva e riuscita. Anche anni dopo, I/le suoi.e attivisti.e sono ancora un’ispirazione per altri.e. E certe domande rimangono senza risposta assoluta : che dire della fine di Otpor e della sua trasformazione politica?

Mila Frey, attivista

Occupare Wall Street – Cosa può imparare lo sciopero del clima


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Occupa Wall Street – Cosa Sciopero per il clima può imparare

Sciopero per il clima è giunto ad un punto critico. Come andare avanti ora? Un confronto con un altro movimento sociale, “Occupy Wall Street”, mostra quali sono le strategie e le idee che riescono a mantenere alta l’attenzione anche dopo lo slancio iniziale.

Conosciuto da molti come Occupy e abbreviato così anche in questo articolo, il movimento Occupy Wall Street è stato lanciato nel settembre 2011. Le proteste sono state stimolate dall’occupazione della piazza Tahrir in Egitto a seguito della primavera araba e da un post sul blog del gruppo media canadese Adbusters Media Foundation, la cui rivista socio-critica è conosciuta in tutta l’America, e che ha richiesto l’occupazione di Wall Street. La piazza Tahrir al Cairo era stata occupata da un lato, ma dall’altro era anche utilizzata come luogo di raduno e dimostrazione, motivo per cui aveva un simbolismo speciale per il movimento Occupy, il quale combina queste due forme di protesta. I/Le manifestanti hanno quindi piantato le loro tende nel vicino Zucottipark al fine di lottare per compensare le disparità sociali tra ricchi e poveri, per un maggiore controllo del sistema finanziario e una politica indipendente dall‘economia. Questa occupazione fisica, l ‘”occupazione” dei luoghi pubblici, è diventata un simbolo: i luoghi con un alto valore simbolico economico sono diventati luoghi di unione e uguaglianza. Da quel momento in poi, il grido di battaglia “We are the 99 percent!”, espressione del fatto che questo movimento è stato sostenuto dalle masse, è stato sentito e visto sempre più di frequente. Alcuni episodi di violenza da parte della polizia hanno aumentato la solidarietà tra i manifestanti. Twitter è stato un mezzo importante per esprimere la frustrazione e allo stesso tempo informare il mondo intero sulla situazione.

L’attenzione ha raggiunto il picco dopo che alcuni manifestanti scesero dal marciapiede durante una manifestazione sul ponte di Brooklyn e la polizia intervenne. Dozzine furono arrestate, il che a sua volta aumentò la resistenza. Il movimento di protesta americano inizialmente locale si è rapidamente diffuso a livello internazionale con l’aiuto dei social media. La critica alle imprese multinazionali ha incontrato l’approvazione generale dopo la crisi economica del 2007. Anche prima dell’inizio dell’inverno 2011, sono state organizzate proteste in 82 paesi e 911 città in tutti e cinque i continenti.

Occupy aveva sviluppato uno slancio molto forte ed era stato in grado di vincere la simpatia di persone come Barack Obama, ma nulla di tutto ciò ha potuto impedire al movimento di scomparire rapidamente come era arrivato. Gli ultimi rami internazionali del movimento esistevano ancora fino al 2014, già per il 2012 Occupy non era più in grado di costruire qualcosa sulle sue vittorie iniziali . È evidente che Occupy ha avuto chiaramente successo in termini di attenzione da parte dei media. Quanto sia cambiata questa divertita attenzione del pubblico è discutibile. Quel che è certo è che la finanza americana non è stata in alcun modo riformata e il capitalismo globale è altrettanto presente. La questione della disuguaglianza sociale ed economica è più urgente che mai. Tuttavia, non si può dire che le proteste non abbiano fatto nulla. Numerosi (ma molto più piccoli) movimenti di base intorno alle questioni sociali hanno avuto origine da Occupy, e influenzano eventi politici, non a livello globale ma sicuramente a livello locale.

Il problema più grande di Occupy era che il movimento non ha mai posto richieste concrete nel senso di un manifesto o di una „lista“ ufficiale di richieste. Piuttosto, la critica era troppo generale, non c’erano destinatari/e concreti/e, il movimento era troppo disorganizzato. Quindi cosa promuove l’attivismo sostenibile in un movimento che non si appiattisce dopo una fase breve ma molto intensa, ma rimane costante fino al raggiungimento degli obiettivi prefissati? Se guardiamo a questo in relazione alla situazione attuale, dobbiamo porci la domanda: c’è un punto in cui la nostalgia collettiva, il “clamore climatico” dei media è maggiore del movimento stesso? Sebbene gli scioperi climatici abbiano superato le proteste di Occupy, vale la pena beneficiare dell’esperienza di altri. Ad esempio i segni con le mani di Sciopero per il clima, che permettono una comunicazione più

semplice e diretta all’interno di grossi gruppi, sono stati presi da Occupy. Il corso delle proteste è stato anche analizzato in modo più dettagliato al fine di essere in grado di orientarsi dall’inizio del movimento. Ora, tuttavia, siamo in un punto diverso, abbiamo visto da soli come le proteste possano funzionare e quale immensa organizzazione “dietro le quinte” è necessaria. È tempo di confrontare le strategie dello sciopero climatico con quelle di Occupy, per imparare dalle tattiche fallite e per adattare quelle di successo.

Sia nello sciopero del clima che in Occupy, ci sono varie idee su come qualcosa dovrebbe essere realizzato. Ma l’obiettivo comune era o è decisamente più unificante: per Occupy, questo era il superamento del capitalismo nella sua forma attuale, nel caso di Sciopero per il clima che si evitasse la crisi climatica, che alla fine richiede anche una diversa forma di economia. Tali obiettivi sono enormi, riguardano una vasta gamma di settori della vita, devono essere affrontati a livello globale e sono quindi difficili da comprendere per molte persone. Questo è il motivo per cui è tanto più importante mostrare proposte e richieste concrete per il pubblico nel modo più chiaro possibile, ovvero comunicare in modo trasparente. Fu su questo punto che Occupy fallì. Oggi, quasi nove anni dopo, ci sono grazie ai diversi canali sociali mediatici sempre più nuove piattaforme a disposizione per entrare in contatto con le persone. Ma questo da solo non è abbastanza. L’accumulo continuo di pressione è cruciale: dato che il lavoro sulle nostre tre esigenze principali non è stato fatto, la preparazione del Climate Action Plan è ancora più importante per essere in grado di mostrare dove la società deve agire ora.

Un’altra caratteristica comune di questi due (e in realtà di tutti) i movimenti: più persone partecipano fisicamente, maggiore è l’effetto sui media e sul campo politico. Ma poiché le manifestazioni di massa non possono sempre aumentare di numero e normalizzarsi dopo un certo tempo, lo sciopero del clima ha bisogno in aggiunta di nuove forme espressive. Occupy si fermò a questo punto: né osò entrare nella politica istituzionale (anche se Bernie Sanders sostenne un candidato presidenziale), né Occupy andò in offensiva con azioni di disobbedienza civile. Tali azioni hanno un carisma incredibile e, se non violente, sono enormemente importanti.

Qual è il prossimo passo concreto? In ultima analisi, forse non è la mancanza di forza motrice di Occupy, ma piuttosto un margine di manovra molto limitato nel nostro sistema statale democratico- capitalista, che rende impossibile la continuazione delle richieste domandate?

Come si può contrastare questo enorme macchinario dello stato? Un’opzione è quella di collaborare con altri gruppi di interesse e quindi raggiungere una maggiore portata. Di grande importanza per la solidarizzazione di Occupy è stato lo scandalo pubblico e l’indignazione contro le violazioni morali. Il valore sentimentale delle singole persone determina quindi il successo di un movimento, in ultima analisi, in quanto forma l’identità collettiva. Ma come si può plasmare un’identità collettiva?

Mantenere l’attenzione, ricordare un obiettivo, è essenziale in questo caso. Solo in questo modo l’energia raccolta da manifestazioni, scioperi e altre azioni può essere utilizzata in modo concentrato. Con una direzione. E un obiettivo. Nel caos delle chat, dell’organizzazione di eventi, delle interviste, degli articoli di giornale e, a parte, della scuola, del lavoro, degli amici e della famiglia, l’attenzione si sposta dal vero scopo dello sciopero del clima ad altre questioni che possono essere importanti di per sé, ma che a questo punto non ci portano da nessuna parte. Il potenziale è enorme: in brevissimo tempo è stata creata una piattaforma che riunisce persone con un simile impulso interiore, una motivazione infinita per quella che considerano la cosa più importante. Questo ha reso possibile le discussioni. E le azioni. Ma ci stiamo muovendo a una velocità incredibilmente elevata, e non solo per caso, perché il tempo stringe. In queste circostanze bisogna essere prudenti: nel caso di Occupy, la rapida espansione del movimento e la conseguente esposizione mediatica è stata una delle ragioni principali per l’altrettanto rapida scomparsa del collettivo. Mancava una chiara struttura propria, un posto fisso nella società.

Anja Gada, 18, al momento attivista per un anno sabbatico, forse anche per sempre

Flurin Tippmann, 19, filosofo per hobby, gli piacciono i documentari sugli animali ed il rap

Lettura della raccomandazione


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Make Rojava Green Again, Internationalist commune of Rojava 

Leggi online: https://makerojavagreenagain.org/book/

Make Rojava Green Again non riguarda solo la rivoluzione curda, ma anche una “introduzione all’idea di ecologia sociale”. Le autrici dipingono immagini di speranza con le loro parole, mostrando perché il capitalismo è alla radice del problema, perché è il più grande ostacolo per la liberazione delle donne, l’ecologia e la democrazia radicale. Essi attingono allo sviluppo del rapporto tra l’uomo – uomo e l’uomo – natura. Il libro delinea in modo comprensibile la costruzione di un mondo più giusto utilizzando l’esempio tangibile di “Rojava”.

Leonie Traber, 18 anni, attivista per il clima, membro dello GISO

Le Sabotage, Émile Pouget, 1911

Disponibile in francese qui , basato su un’edizione del 1969; e in italiano qui, Maldoror Press, 2014

Émile Pouget, figura storica del sindacalismo francese, presenta in questo breve libro vari tipi di ciò che egli chiama sabotaggio, cioè la resistenza dei lavoratori che rallentano l’attività economica nel contesto della lotta contro i datori di lavoro o, talvolta, contro lo Stato. Presenta una storia del concetto, contestualizza il sabotaggio dei lavoratori di fronte al sabotaggio capitalistico, descrive casi concreti, e si occupa delle molle morali che stanno dietro a queste azioni – soprattutto quando lo strumento di lavoro è danneggiato. Presenta anche i limiti di alcune azioni, soprattutto quando l’obiettivo è scelto male. Questo libro apre il campo delle possibilità e ci permette di beneficiare dell’esperienza dei movimenti del passato.

Robin Augsburger, civilista, laureato in biologia ed etnologia. Attivo nel campo dell’ecologia, delle migrazioni e del sindacalismo studentesco

Drawdown, Paul Hawken 

Drawdown, è, come dice il sottotitolo “il piano più completo mai proposto per invertire il corso del riscaldamento globale”. Infatti raccoglie gli studi fatti da circa duecento scienziati suddividendoli per settori: edifici e città, energia, alimentazione, uso del territorio… Per ogni soluzione proposta viene fatto un esempio, se possibile, e indicato più o meno quanto costerà e farà risparmiare in dollari e quanto ridurrà l’impatto ambientale se messa in atto. Questo volume tratta in modo chiaro argomenti specifici ergo può essere adatto sia agli esperti in cerca di spunti o soluzioni sia ai semplici curiosi.

Rebecca Martinelli, 17 anni, studia a casa

La mia visione verde


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Il mondo è diventato più lento, sì, s’è proprio fermato. E solo adesso i bruchi hanno davvero tempo per trasformarsi in farfalle. Bisogna semplicemente fermarsi e respirare. Prima la vita sembrava una maratona, dovevamo correre sempre più in fretta, senza mai vedere il traguardo. Svegliarsi, fare soldi, dormire, alzarsi, fare ancora più soldi… Ma non possiamo diventare sempre più veloci, sennò collassiamo. Ed ora restiamo semplicemente fermi, e questo fa un bene tremendo. Fermiamo gli ingranaggi e guardiamoci bene che c’é di sbagliato in questa macchina.

E quando non voglio restare ferm@, salto sulla mia bicicletta. E senza dovermi preoccupare che il camion dietro di me mi veda davvero, perché dietro non c’è nessun camion, è già un pezzo che non c’è più traffico di auto. C’è il trasporto pubblico per molta gente, ma la maggior parte si sposta su due ruote. Prima quando attraversavo la Hardbrücke (il ponte sulla zona industriale) quasi soffocavo per la puzza delle tante automobili – ora c’è appena un leggero profumo di rose nell’aria.

Da bambina sognavo sempre che da grande avrei avuto una mia casa col giardino.
Ma adesso non ne ho più bisogno, la piccola abitazione che condivido con amiche e amici è assolutamente sufficiente. Non ho più bisogno di un giardino, perché quella che prima era una strada, ora è il giardino di noi tutte*i. Al posto dell’asfalto grigio e secco ora c’è una terra umida, che aspetta solo che vi si piantino dei girasoli. Ma non solo fiori: una gran parte del nostro cibo viene da lì. La prima volta che ho mangiato un pomodoro del giardino, non ci credevo: gusto! Prima dovevo scegliere nel supermercato tra i più diversi tipi di pomodori, tutti perfetti, pieni e colorati, tutti senza gusto. Avere la scelta, sembrava l’unica cosa importante -e non importava se poi il numero di varietà corrispondeva a quello dei paesi esportatori. E non importava se delle persone dovevano lavorare tanto per pochissimi soldi, pur di mettere un prezzo basso. Andare in vacanza significava allora, per molti del mio giro: volare molto lontano. Le persone si rallegravano molto per quello, e quelle ferie valevano come status simbol: più lontano si va, meglio è. Noi abbiamo riportato la bella vita qui, ed ora il lungo viaggio non è affatto meglio.

Da lontano vedo scintillare un impianto solare. Stare fermi, ha anche come conseguenza che consumiamo meno energia. L’energia che ci serve la produciamo in modo decentrato, dai nostri tetti. Quando prima si attraversava la città nelle ore di buio, c’era dappertutto la pubblicità che illuminava. Oggi la luce è accesa quando serve, e finalmente vedo di nuovo le stelle. Un cambiamento deve sempre essere preceduto da un processo di riflessione. La forbice dell’ineguaglianza che si apre sempre più -chi la apre? E come la chiudiamo, questa forbice? Quelli che producono le emissioni di CO2, quelli che hanno portato alla crisi, loro non sono tra i più colpiti dalle conseguenze.
Com’è possibile? Domande che abbiamo evitato troppo a lungo. Ed anche questa è una cosa che in questa società abbiamo ora imparato: parlare dei nostri problemi.
E con questo non intendo un paio uomini, bianchi e vecchi, seduti ad un tavolo, ma che a questo processo di negoziazione possano partecipare davvero tutti, bambini, giovani, stranieri e straniere, donne: hanno tutti*e il diritto di avere voce in capitolo. Perché la crisi climatica lo mostra in modo esemplare: quelli che non hanno voce in capitolo, sono spesso quelli che ne sono davvero colpiti.

Come società abbiamo dovuto imparare di nuovo che significa apprezzare il valore delle cose. Apprezzare la natura per ciò che è: un ambiente che interagisce con noi, e non semplicemente una risorsa che è qui solo per essere consumata da noi esseri umani. Apprezzare le donne per il tanto lavoro che fanno, e quindi retribuirle adeguatamente. Essere grati per il fatto che stiamo così bene. Farla finita con le conclusioni scontate.

Sempre avanti a estrarre, bruciare, buttare: non va, e questo era già chiaro dall’inizio. Lavoriamo meno, consumiamo meno, produciamo meno, e malgrado questo non abbiamo perso nulla, anzi abbiamo solo guadagnato. Spingere la crescita sempre più, aveva come effetto collaterale lo sfruttamento dell’uomo e della natura: l’economia cresceva e al tempo stesso l’uomo e la natura sprofondavano. Eppure prima sentivo sempre una parola, quando si trattava della protezione del clima: rinuncia. Non voglio rinunciare alla mia auto, ai miei voli a Dubai, alla grande scelta che mi offre la Migros. Ma quando guardo questo mondo e penso al ritornare nel vecchio sistema, anche io penso a questa parola: rinuncia. Rinuncia alla comunanza, alla vicinanza con la natura, all’eguaglianza. E al pomodoro, che sa davvero di pomodoro.

Lina, 19 anni giovane, studia scienze ambientali

Il progresso ha bisogno di pionier*


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Traduzione italiana


È il nostro ruolo conquistare tutti seguendo una politica neutra? No! Con il concetto di pionier*, il mantra ‘ci servono tutti’ viene spazzato via. È l’ora di fare avanguardia con posizioni e idee chiare, perché il progresso non avviene al passo di marcia.

La conoscenza della crisi climatica provocata dall’uomo e le opportunità di cambiamento non sono note solo da ieri, ma esistono da decenni. Anche i negoziati internazionali non sono un nuovo fenomeno. Il primo grande vertice ambientale si è tenuto a Rio nel 1992 e da allora si sono svolti negoziati a livello internazionale. La Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici ha celebrato il suo 25° anniversario lo scorso dicembre, eppure ora siamo più profondamente in crisi che mai. La paralisi politica, che di fronte alla crisi climatica equivale a un viaggio frenetico nell’abisso, non può quindi essere spiegata né da una mancanza di consapevolezza né da una mancanza di conoscenza. Ciò che manca è stata la volontà di cambiare. È mancato il coraggio di chiedere il radicale ma razionale.

La strada come catalizzatore

Ma un fatto decisivo è accaduta un anno fa: da una furente stasi emerse un movimento della società civile in rete e decentralizzato a livello globale – e la pietra iniziò a rotolare. La conoscenza scientifica fu liberata dalla torre d’avorio e da essa derivarono richieste politiche. Gli individui si sono uniti per le strade e hanno chiesto il riconoscimento della crisi climatica, misure efficaci e giustizia climatica.

Nel giro di pochissimo tempo, ci si stava muovendo di più che nei decenni precedenti. Questo cambiamento nelle dinamiche politiche si concentra su una domanda: qual è il ruolo del movimento di sciopero per il clima nella lotta globale contro lo sfruttamento di esseri umani, animali e natura, nella lotta per l’uguaglianza e la libertà?

Cerchiamo di avvicinarci alla risposta facendo una classificazione e sulla base di essa tracciando una strategia che noi autori mettiamo in discussione. Prima di tutto, affrontiamo la sfera politica in generale.

Siamo democrazia

Nell’uso quotidiano della lingua, la politica è spesso equiparata a ciò che accade all’interno dei parlamenti. In questa accezione, il potere di cambiamento spetta solo a coloro che governano e elaborano le leggi. La possibilità e quindi anche la responsabilità di negoziare questioni sociali appartiene quindi solo a una classe selezionata. La politica è esiliata nelle polverose camere del Parlamento. Questa versione è espressa in dichiarazioni come “la politica (istituzionale) deve agire”, “devi fidarti dei politici” o “gli scioperi sono controproducenti. Invece, dovresti andare alle urne e partecipare alla democrazia”. Questo punto di vista non è solo molto miope, ma anche devastante in vista della crisi climatica. Non possiamo permetterci di soccombere a questo fraintendimento di politica e democrazia e continuare a fare affidamento esclusivamente su* nostr* rappresentanti.

Per definizione, la democrazia è il governo del popolo, in cui ogni cittadin* fa parte della politica. La sfera d’influenza politica dell’individuo si estende ben oltre la semplice elezione e il voto. Questa concezione ridotta del politico è spesso rappresentata da una prospettiva elitocratica al fine di delegittimare altre forme di partecipazione popolare in generale. Correttamente, uno stato costituzionale democratico presuppone un forte bisogno di revisione e deve quindi essere sempre aperto a requisiti normativi più elevati. Thoreau sostiene che lo strumento politico della disobbedienza civile dovrebbe allineare la legge a ciò che la propria coscienza prescrive [1]. La resistenza civile è parte indispensabile di una vera democrazia, perché solo questa forma di partecipazione politica può fondamentalmente mettere in discussione l’ordine esistente. Dobbiamo i maggiori successi sociali non ai politici, ma ai movimenti sociali. L’uguaglianza di genere o l’abolizione della schiavitù non sono promosse dai politici, ma dalla protesta di strada. La legislazione dei parlamentari non provoca il cambiamento, ma ne è una reazione. I movimenti sociali sono il catalizzatore del cambiamento. [2]

Come possiamo diventare la forza trainante del cambiamento come movimento dello sciopero per il clima e come possiamo rimanere tali? Di seguito ci occupiamo di due tesi: in primo luogo, esaminiamo il presupposto che un cambiamento sostenibile possa avvenire solo se portato avanti da tutta la popolazione. Formuliamo quindi un’antitesi a questa visione.

Il progresso non si fa al passo

“Per cambiare tutto, abbiam bisogno di tutti!” – Molte persone sono sicure di dire queste parole nel contesto dello sciopero per il clima quando si affronta la domanda di quale sia il nostro compito e come dovremmo procedere di conseguenza. Se abbiamo bisogno di tutti loro – può essere dedotto logicamente – non dobbiamo urtare nessuno. Ed è per questo che alcuni affermano anche che non siamo “né di sinistra né di destra” [3]. Ciò che si loda come riconoscimento, noi consideriamo una comprensione politica limitata, che comporta il rischio di vagare sfiduciati nell’insignificanza.

Perché chi non disturba, non ha rilevanza a lungo termine. Se l’utopia di oggi deve essere la realtà di domani, non dobbiamo mai chiedere ciò che è attualmente realistico. Un’ampia e immediata approvazione da parte della popolazione o la mancanza di critiche nei confronti del campo economico liberale sono chiare indicazioni che le nostre richieste si spingono troppo poco oltre. Ciò è particolarmente fatale se non si tratta di una vita migliore, ma della sopravvivenza dell’umanità. Potremmo aver bisogno della maggioranza in un secondo momento, ma inizialmente non dell’approvazione di tutti!

Dobbiamo inoltre respingere l’opinione che potremmo convincere ogni individuo della popolazione individualmente. Con approcci individualistici non generiamo potere politico e quindi non realizziamo un cambiamento sociale. Tali approcci non sono irrilevanti, ma dovrebbero sorgere nel terreno che abbiamo livellato, da altr* attori/rici. È importante utilizzare le risorse in modo efficiente e, soprattutto, assumere quel ruolo nella società nel suo complesso che solo come movimento possiamo svolgere.

In definitiva, l’esempio dello stile di vita di cui abbiamo bisogno ha solo un senso limitato nel nostro ruolo. Non possiamo condurre una vita sostenibile in una società basata sullo sfruttamento e sui combustibili fossili. Se fosse possibile vivere così, il nostro movimento non sarebbe necessario. Tali approcci non possono portare a cambiamenti sociali perché sottovalutano l’equilibrio d’interessi e potere e ignorano l’ubiquità dell’ideologia neoliberista in tutti gli aspetti culturali. Perché la “sorprendente vitalità e apparente inevitabilità del capitalismo non [si basa] sulla sua resistenza alle critiche, ma sul suo potere di auto-rinnovamento, vale a dire sulla sua capacità di assorbire controproposte critiche e potenziale di proteste, di trasformarli ‘in modo produttivo’ e nella stessa mossa di [invalidarli] e [paralizzarli]” [4].

Come antitesi a questo mantra del “abbiamo bisogno di tutti”, di seguito delineiamo una proposta come prima fase di una possibile strategia: il concetto di pionier*.

Lo sciopero per il clima nel discorso societale generale

Lo sciopero per il clima ha portato il problema della crisi climatica dalle strade ai media, alla politica istituzionale e al pubblico. Da un anno diamo forma ai pubblici discorsi. Le nostre azioni potrebbero anche cambiare in modo significativo l’ambiente politico che circonda la lotta contro la crisi climatica. Che si tratti di movimenti di protesta civile come Collective Climate Justice, Extinction Rebellion, varie ONG o i partiti verdi, potrebbero trarre vantaggio dal nostro progresso o svilupparsi in interazione con noi. Per questo motivo, non possiamo considerare lo sciopero del clima isolatamente in un’analisi della situazione. Ciò pregiudicherebbe la situazione e porterebbe anche a una valutazione errata. Una visione più adeguata mostra lo sciopero del clima in una struttura dinamica in cui innumerevoli attori/rici interagiscono. Questi includono tutte le scienze, la politica istituzionale, le ONG, i gruppi d’interesse, i movimenti politici extraparlamentari e soprattutto i media. Questa struttura nel suo insieme costituisce il discorso. Il discorso nel senso di Foucault è un “contesto prodotto linguisticamente che rafforza una certa idea, che a sua volta ha come base e genera determinate strutture di potere e interessi allo stesso tempo” [5]. Queste strutture di potere sono principalmente create dalle condizioni economiche e dalle loro élites.

Ma dove si trova il movimento dello sciopero per il clima in questa struttura? Esaminando ora questa domanda, saremo più chiari su quale potrebbe essere il suo compito. Il concetto di pionier* organizza quindi lo sciopero per il clima come parte di un discorso societale ampio – e proprio al suo apice.

Il movimento di sciopero per il clima come un pioniere

Il concetto di pioniere vede il movimento di sciopero del clima nella parte superiore di un triangolo, che include il discorso di società spiegato sopra. L’ampia base viene trascinata mentre la punta avanza. Il modello non deve essere inteso come una struttura gerarchica. Invece, riflette la posizione de* singol* attori/rici all’interno del discorso. La resistenza della società civile è nell’apice. Questa è affiancata da correnti rivoluzionarie. Segue politica istituzionalizzata, scienza, ONG, media e altre istituzioni. Quest* attori/rici sono in costante contatto tra loro e con la società civile.

Il movimento degli scioperi per il clima formato un anno fa ha completato la parte superiore del triangolo. Questo spiega l’impatto clamoroso che ha iniziato a manifestarsi dappoi. Il movimento di sciopero per il clima come fenomeno profondamente ancorato nella società è in grado di collegare le/i singol* e un tempo isolat* pionier* e formare così un vertice unificato.

Il nostro approccio è quello d’introdurre termini, idee e richieste nel discorso che vanno oltre lo scopo del realistico, persino concepibile inizialmente e poi nel tempo si espandono. Reclami precedentemente screditati a causa del loro radicalismo possono ora germogliare nella nostra scia. Ciò che un tempo appariva radicale è ora considerato più realistico dal grande pubblico. Di conseguenza, c’è la possibilità di ampliare lo spazio di ciò che può essere detto e pensato, cioè la realtà. I movimenti “si sforzano di creare opportunità che non possono immaginare coloro che si muovono all’interno dei confini del sistema. L’obiettivo è cambiare le condizioni del dibattito e creare un nuovo riferimento per ciò che è considerato politicamente fattibile e appropriato” [6]. Ad esempio, la richiesta dello sciopero per il clima di zero emissioni nette di gas serra entro il 2030 ha sforato il realistico. Ciò ha reso l’iniziativa sui ghiacciai che richiede zero netto entro il 2050 – in precedenza utopica – una soluzione più realistica. Inoltre, siamo stati in grado di spostare da radicale in parte verso razionale la valutazione pubblica della nostra richiesta di zero netto al 2030 con una gestione continuativa dei temi.

È quindi importante da un lato che non consideriamo le nostre azioni isolatamente, ma in interazione con vari movimenti e richieste progressivi. D’altra parte, dobbiamo capire che ciò può accadere solo se precediamo politica e società e non se speriamo in un’ampia approvazione fin dall’inizio. Ed è per questo che non dobbiamo riposare sugli allori, ma espandere continuamente lo spazio del discorso sociale. Il progresso non si presenta al passo, ma attraverso un’avanguardia sulle cui orme gli altri possano seguire.

Il concetto di pionier* in pratica

Perché ciò accada, è necessario incorporare le nostre manifestazioni e scioperi in una strategia che preceda e vada oltre. Devono essere alimentati più fortemente con i contenuti e incorporati in un concetto discorsivo. Nella fase di pre-sciopero, un atto provocatorio di disobbedienza civile può generare l’attenzione dei media al fine di gettare un nuovo argomento nel discorso collettivo. Il grande evento come momento culminante dell’interesse dei media è il momento in cui l’argomento deve essere portato a un pubblico più vasto. Per poter cambiare l’eloquio, dobbiamo influenzarlo oltre lo sciopero. Qui proponiamo quindi di fare sempre più affidamento su documenti in grado di trasmettere contenuti in modo migliore e più ampio.Volantiniopiccoli giornali dovrebbero apparire a ogni sciopero ed essere distribuiti gratuitamente e i discorsi pubblicati su internet. In questo modo, il livello emotivo dei raduni di massa è meglio collegato al contenuto teorico. Perché informare in particolare i sostenitori dello sciopero per il clima ma anche l’intera società civile, in maniera fondata e non filtrata dai mass media allergici ai contenuti, sarà un elemento centrale del nostro successo.

Una mano stretta a pugno, l’altra allungata

La logica del concetto di pionier* di spostare il discorso si oppone quindi alla pretesa che tutta la gente debba già dare appoggio alle nostre richieste. Tuttavia, è importante essere consapevoli dell’importanza di mantenere un collegamento con le rilevanti istituzioni. Se vogliamo influenzare la società, dobbiamo restare in contatto con essa. La provocazione progressiva dovrebbe essere integrata con una mano tesa alla società. Se lo sciopero per il clima si radicalizza troppo rapidamente, c’è il rischio che diventi un altro movimento rivoluzionario che cade in un’esistenza oscura al di fuori della società. Perché “il classico vocabolario costitutivo del discorso della critica sociale e del capitalismo – ‘rivoluzione’, ‘socialismo’, ‘classe’, ‘sfruttamento’, ‘alienazione’ ecc. – sono spesso screditati e appaiono stranamente noiosi e consumati, nella migliore delle ipotesi” buoni per le vetrine dei musei di storia […].” Ecco perché una “critica politicamente efficace della società e del capitalismo deve prendere atto delle nuove manifestazioni del capitale e presentarle in termini di mutabilità. Soprattutto, tuttavia, deve combinare l’analisi scientifica con l’esperienza dei movimenti di opposizione e protesta esistenti” [7].

A questo punto va notato ancora una volta che il concetto di pionier* rappresenta solo una prima fase della nostra proposta di strategia, che prepara la successiva e vi scorre senza problemi. Perché per combattere la crisi climatica ci vorranno più fasi. Nondimeno, è importante anticipare alcuni elementi centrali nello Strike for Future e nella fase successiva, in cui i vari movimenti sociali devono essere collegati: il nostro compito principale deve risiedere nel lavoro non parlamentare. L’hanno dimostrato le elezioni del Consiglio nazionale, la COP25, ecc.: La vera democrazia può essere attuata solo al di fuori delle istituzioni. Se vogliamo criticare le strutture e le relazioni che devono essere cambiate; se vogliamo mobilitare la maggioranza delle persone che soffrono della crisi climatica contro il neoliberismo e contro le condizioni non democratiche, non possiamo esimerci dal posizionarci in modo chiaro politicamente e ideologicamente [8]. Perché chi non urta, non ha rilevanza. Chi non si distingue, resta mal delineato. La paura della crisi climatica e la volontà di scongiurarla devono superare di gran lunga la paura di perdere il favore di una parte della società per via della polarizzazione. Altrimenti abbiamo già perso. Se non abbiamo una posizione chiara, se non prendiamo una posizione coraggiosa, la società non lo farà mai. Non abbiate paura d’intraprendere passi decisivi con posizioni e idee chiare!

Cesare Anderegg, 27 anni, attivista del clima a Zurigo e Winterthur, membro di JUSO, studente di scienze politiche ed economia, poeta di strada.

Linus Stampfli, 24 anni, attivista del clima a Winterthur e Zurigo, non membro di un partito politico, non studia all’università ma per strada.

Fonti:

[1] Henry David Thoreau

[2] Mark Engler, Paul Engler. This is an uprising. How nonviolent revolt is shaping the twenty-first century. New York: Nation Books. 2016. 

[3] Replica di uno scioperante per il clima su un articolo del Tagesanzeiger, in cui lo sciopero per il clima viene descritto di sinistra. URL: https://tagesanzeiger.ch/schweiz/standard/wir-sind-weder-links-noch-rechts/story/16403156(in tedesco, 25.12.2019)

[4] Rolf Eickelpasch, Claudia Rademacher, Philipp Ramos Lobato. Metamorphosen des Kapitalismus – und seiner Kritik. Springer-Verlag. 2008. p.12.

[5]MichelFoucault.DieOrdnungdesDiskurses[1972; dt. 1974]. Frankfurt a. M.: Fischer Taschenbuch. 1991.

[6] David Roberts. In: Mark Engler, Paul Engler. This is an uprising. How nonviolent revolt is shaping the twenty-first century. New York: Nation Books. 2016. p. 112.

[7] Rolf Eickelpasch, Claudia Rademacher, Philipp Ramos Lobato. Metamorphosen des Kapitalismus – und seiner Kritik. Springer-Verlag. 2008. p. 9/10.[8]  Steve Jones. Antonio Gramsci. Routledge. 2006.